venerdì 28 febbraio 2014

Investire nei mercati emergenti – parte II



Dopo averli introdotti in due post precedenti (qui e qui), ancora alcune considerazioni sui mercati emergenti, questa volta di carattere macroeconomico. Il prossimo post sarà invece dedicato ad un’idea di investimento specifica.

Il dibattito sui mercati emergenti in questi giorni è centrato sulla seguente domanda: le dinamiche attuali porteranno ad una ripetizione della crisi del 1997-1998 o questa volta gli EM sono maggiormente protetti da una situazione macroeconomica differente? 

Osservando i parametri economici attuali di questi paesi rispetto a 15 anni, la conclusione di molti analisti è che in realtà non siano così vulnerabili, e di conseguenza il recente sell-off è eccessivo. Questo punto solleva anche un’altra domanda: quale crollo? L’indice azionario MSCI EM in USD è sceso del 10% da inizio anno e del 21% dai massimi del 2011, mentre un indice di obbligazioni in valuta locale è diminuito, rispettivamente, di 1% e 12%. Dati in controtendenza rispetto ai paesi sviluppati, ma non certo da diffondere il panico nei mercati.

Questa analisi non è tuttavia completa: ci sono differenze significative tra i fondamentali odierni di molti paesi emergenti e la situazione precedente alla crisi del 1997-1998, questo però non vuol dire che EM non abbiano problemi seri o che l’aggiustamento economico sarà veloce ed indolore. 

Due conclusioni espresse nei post precedenti rimangono quanto mai importanti:

  1. I periodi di boom e di bust in EM tendono ad essere più lunghi di quello che molti pensano (o sperano)
  2. A livello globale, le scelte di asset allocation saranno sempre più dettate sia dalla scelta dei singoli paesi (country picking) che dei singoli investimenti (stock picking): questo vale per i paesi sviluppati e – a maggior ragione – per gli emergenti. 

Leggendo qua e là i report ed i consigli su cosa fare, purtroppo, si incappa in alcune views che sono molto superficiali e quindi pericolose da prendere come verità assolute. 

Convinzione #1: le valutazioni nei mercati emergenti sono scese molto e già scontano prospettive negative 
Questa affermazione è corretta se guardiamo in maniera generica alle valutazioni degli indici azionari, per i quali i multipli P/E e P/BV sono vicini ai minimi toccati nel 2002 e nel 2008. Tuttavia questo maschera l’enorme divergenza di valutazioni che oggi presenti nell’universo di EM.

Il P/E mediano per l’universo di EM è oggi 20x, mentre il P/CE (price-to-cash earnings) mediano è di 12x, entrambi superiori allo loro medie storiche di 16x e 10x, rispettivamente. Un P/E mediano di 20x significa che metà delle aziende ha un P/E superiore a 20x, che non è certo una valutazione a sconto. Considerazioni simili possono essere fatte anche per P/BV e dividend yield. 


Fonte: BCA Research su dati MSCI. 

Le valutazioni mediane in EM sono non solo costose rispetto alla loro storia, ma anche rispetto ai mercati sviluppati (mentre vale l’esatto opposto se si considerano i multipli utilizzando la media ponderata, come espresso anche nella tabella nel post precedente): solo il P/BV in EM è ha sconto rispetto ai paesi sviluppati. 
Fonte: BCA Research su dati MSCI. 

Come si spiega questa discrepanza tra multipli medi e mediani? La risposta è semplice: i settori maggiormente rappresentati negli indici EM trattano tutti a basse valutazioni. Questi includono ad esempio le banche cinesi, il settore energetico in Russia e Brasile, il segmento minerario e quasi tutte le SOE (state-owned enterprises). Questi settori non sono delle vere opportunità value, quanto piuttosto delle value traps: sono cioè cheap per un motivo. E queste ragioni sono facili da elencare: scarsa capacità del management, interferenze dei governi, esposizione al ciclo delle commodities quando i prezzi di questi sono in diminuzione, pessima qualità degli asset bancari in paesi come Cina, Brasile, Turchia, India… Escludendo questi settori, le valutazioni del resto del mercato sono invero molto elevate. 

Tipicamente, quando si verifica una dislocazione nei mercati finanziari, le valutazioni tendono a muoversi oltre il loro valore equo in entrambe le direzioni (overshooting/undershooting): dato il deterioramento delle condizioni economiche in molti EM, è probabile che le valutazioni debbano scendere ancora (undershooting), soprattutto rispetto ai paesi sviluppati, prima di essere sicuri di essere al punto più basso. 

Conclusioni: le valutazioni in EM non sono così a prezzi di saldo come molti assumono. Il mercato ribassista potrà finire solo quando le valutazioni saranno più basse su un’ampia gamma di paesi e settori. 

Convinzione #2: la crisi del 1997-1998 fu dovuta a deficit delle partite correnti ed elevato debito pubblico, sopratutto in valuta estera; nessuna di queste condizioni prevale oggi 
È sicuramente vero che a partire dalla seconda metà degli anni 1990 molti paesi emergenti cominciarono ad avere un deficit delle partite correnti non sostenibile, che i paesi asiatici avevano significativi debiti denominati in valuta estera e che quelli dell’America Latina (così come la Russia) avevano eccessivo debito pubblico, e senz’altro tutti questi fattori contribuirono allo scoppio della crisi e del suo contagio.

Tuttavia, il fatto che oggi gli EM non siano nelle stesse condizioni non vuol dire che siano esenti da problemi o eccessi. Come già successo per i paesi sviluppati nel 2008, il problema più pressante oggi per EM è il livello del debito privato, che è cresciuto troppo (e soprattutto troppo in fretta). Stime dell’International Monetary Fund (IMF) e della Bank for International Settlements (BIS) indicano che il livello di debito privato in un sotto-insieme delle 16 principali economie emergenti è salito da $5 trilioni nel 2005 a $29 trilioni nel 2013, con un aumento di $17 trilioni dal solo 2009 (questi numeri includono il debito sia in valuta domestica che estera per famiglie ed aziende, ad esclusione delle banche). La sola Cina è responsabile per $18 trilioni di questo debito totale (ovvero il 200% del PIL nazionale), con un incremento di $12 trilioni dal 2009. Questi valori sono oggi superiori a quelli degli US. 
Fonte: BCA Research. 

Al centro della crisi asiatica del 1997-1998 ci fu lo squilibrio delle aziende asiatiche che avevano finanziato i loro investimenti (molti dei quali senza senso) con debito in valuta estera. Quando gli investitori esteri realizzarono che i rendimenti attesi erano in realtà molto bassi, si ritirarono in fretta ed il sistema finanziario asiatico crollò. Oggi al centro del problema c’è la cattiva allocazione del capitale in Cina: la differenza è che questi investimenti sono finanziati con capitale domestico, e quindi il sistema si regge sui risparmiatori cinesi (famiglie, intermediari finanziari ed aziende con surplus di liquidità). Se e quando i creditori cinesi si stancheranno di finanziare debitori non affidabili, i problemi del paese diverranno evidenti.

Dall’altro lato, paesi come Brasile e Turchia, pur con livelli di debito molto inferiori alla Cina, sono ancora troppo esposti agli investimenti dall’estero, che possono evaporare molto velocemente. 

Conclusioni: il debito del settore privato in EM è cresciuto troppo. Se aggiungiamo che i rendimenti del capitale in molti di questi paesi stanno invece diminuendo (troppi soldi che inseguono rendimenti marginali), la conseguenza sarà un deleveraging forzato, che porterà ad una riduzione dell’attività economica e (probabilmente) una recessione. I prezzi delle attività (incluse le valute) in EM diminuiranno ulteriormente per scontare queste prospettive. 

Convinzione #3: nel 1997-1998 i paesi emergenti avevano limitate riserve in valuta ed i tassi di cambio erano legati al dollaro; oggi invece hanno enormi riserve valutarie e cambi flessibili 
Non c’è dubbio che un cambio flessibile sia migliore di uno fisso, in quando la svalutazione agisce come ammortizzatore degli shock economici. L’idea è che gli EM dovrebbero oggi soffrire un aggiustamento economico più graduale e meno doloroso di quanto accaduto nel 1997-1998. Questo è vero, a patto però che questi paesi non si siano indebitati in valuta estera, nel qual caso la svalutazione della moneta domestica potrebbe causare fallimenti in serie tra chi è indebitato in valuta estera.

Inoltre, con la svalutazione delle valute emergenti, gli investitori esteri che detengono assets in questi paesi vedono diminuire il loro valore. Anche se le obbligazioni emesse in valuta forte (USD e EUR) non hanno un esplicito rischio di cambio, i loro spread del credito tendono tipicamente ad aumentare quando i tassi di cambio in EM si indeboliscono. In ultima istanza, un cambio flessibile non è una panacea per gli investitori internazionali, perché questo non protegge completamente il valore dei loro investimenti quando misurato in USD o EUR. 

Conclusioni: molte banche centrali in EM hanno le risorse per difendere le valute domestiche (o per politiche monetarie che favoriscano l’aggiustamento dell’economia), ma questo a scapito o dell’economia stessa (se difendono i tassi di cambio) o dei mercati azionari/obbligazionari (se preferiscono favorire l’economia in aggregato). Non si può avere tutto allo stesso tempo. 

Convinzione #4: i problemi in EM sono strutturali, ma la ripresa economica nei paesi del G7 li aiuterà a risollevarsi 
La nozione che i mercati emergenti, dopo essersi cullati sui successi degli ultimi anni, necessitino oggi di interventi strutturali è abbastanza diffusa. Che sia la ripresa nei paesi sviluppati (molti dei quali ancora faticano a sistemare le proprie economie) a salvarli da questa situazione è una conclusione tutta da verificare.

Oggi la crescita dei paesi emergenti è molto più legata a variabili interne a questo gruppo di nazioni rispetto al passato, quando i legami con i paesi sviluppati erano molto più forti. Ad esempio, più del 40% delle esportazioni dei paesi emergenti è diretta oggi verso altri EM, mentre nel passato esportavano quasi esclusivamente ai paesi del G7. Se le esportazioni verso gli altri EM si contraggono, sarà necessario un boom delle importazioni da Europa ed US per mantenere la produzione ai livelli recenti, ma al momento questa non sembra essere la strada più probabile. 

Conclusioni: la crescita economica in EM è a rischio non per quello che succede in occidente, ma per i fondamentali di questi paesi. Ed al centro di questa situazione si trova (di nuovo) il deterioramento del ciclo del credito in EM.

Particolarmente esposti potrebbero essere i beniamini di molti investitori, quei BRICs che fino a pochi anni fa sembravano inarrestabili dal punto di vista sia politico che economico: questi paesi sono stati proclamati come i nuovi dominatori del 21esimo secolo ed hanno sovraperformato fino alla crisi (2002-2008), ma sottoperformato – per motivi diversi – da quel momento.

Questi paesi devono affrontare oggi delle nuove sfide. L’India è strozzata dalla burocrazia e dalla inadeguatezza delle sue infrastrutture. La Russia ha cominciato a perdere il suo quasi-monopolio sul gas naturale a seguito della shale revolution in US. In Cina i salari sono sempre bassi ma sono esplosi (+400%), ed oggi subisce la concorrenza di Indonesia, Vietnam e Filippine. Il Brasile ha puntato quasi tutto sulla crescita cinese ed è quindi inesorabilmente legato al suo successo. In tutti questi paesi, infine, le presunzioni di maturità e stabilità politica sono oggi rimesse sotto esame.

Per la prima volta in una decade, i vantaggi competitivi dei BRIC non sono più dati per scontati: il gap in termini di costi con l’occidente si è ridotto, la Cina non è più la fabbrica per il resto del mondo ed US ed Europa stanno riportando a casa quegli investimenti che invece avevano precedentemente outsourced ai mercati emergenti (per mancanza di lavoratori qualificati in questi paesi, per la miglior produttività dell’occidente, per la scarsa protezione su marchi e proprietà intellettuali, …).

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