martedì 25 marzo 2014

Goodwill

Secondo post tecnico, dopo quello precedente sulle passività pensionistiche. Non vorrei rovinare il finale, ma la conclusione è molto semplice: la presenza in bilancio di goodwill è un non-evento.

Per cominciare: cos’è il goodwill, in italiano tradotto alle volte come avviamento? È essenzialmente un artificio contabile creato per essere sicuri che i due lati dello stato patrimoniale (attivo e passivo) si bilancino. Quando un’azienda ne acquista un’altra spesso paga un premio rispetto al valore netto delle attività acquistate. Lo scorso mese Facebook ha acquistato WhatsApp per US$19 miliardi, ma questa cifra non rappresenta nemmeno lontanamente il valore di mercato delle attività di WhatsApp: Facebook ha pagato un premio (enorme) per il brand, i brevetti, la capacità di sviluppo dei programmatori, …

Vediamo un esempio di come è creato e contabilizzato il goodwill. L’azienda A acquista l’azienda B per €500 e nel corso della due diligence rivaluta le immobilizzazioni materiali (fabbriche, macchinari, …) di €50. Questa acquisizione crea, per l’azienda risultante A+B, un goodwill di €350.





Il fatto che venga aggiunta questa voce nell’attivo dello stato patrimoniale ha tuttavia un preciso significato. Originariamente, i principi contabili prevedevano che il premio netto fosse portato immediatamente a detrazione dei profitti (oppure utilizzando le riserve in bilancio), un’operazione che però non coglie l’essenza della transazione. Le aziende fanno acquisizioni per svariati motivi, molti dei quali hanno assolutamente un senso strategico: ad esempio, acquistare un fornitore ed essere in grado di ridurre i costi. Molte acquisizioni creano valore, e quindi giustificano il premio pagato: imputare questo premio come una riduzione immediata degli utili non sembra molto accurato.

Una volta creato, il goodwill rimane “inattivo” nello stato patrimoniale. Fino ad alcuni anni fa doveva essere ammortizzato su un periodo non superiore a 40 anni, quindi il conto economico era soggetto ad una detrazione non monetaria più o meno costante (la famosa A in EBITDA). Oggi non è più così, il goodwill non deve essere ammortizzato ma è invece soggetto ad un’analisi almeno annuale: se il valore corrente stimato è inferiore al costo in bilancio, l’azienda deve fare un impairment e computarlo tra i costi d’esercizio. Questo è senz’altro un modo ragionevole di trattare questa voce, e probabilmente non ne esiste uno migliore dal punto di vista puramente contabile. [NB: questo vale solo per il goodwill, non per le altre immobilizzazioni immateriali (software, concessioni, marchi, …): molte di questi sono correttamente ammortizzate su X anni, così come sono ammortizzate le immobilizzazioni materiali.]

Il problema è che questo approccio lascia molta discrezione al management nel determinare il valore attuale, come è ben chiaro da quanto fatto da Unicredit alcune settimane fa: nei conti del 2013 la banca ha deciso di procedere ad una svalutazione di “[…] €9.3 bn goodwill and customer relationships impairment”, di fatto azzerando questa voce per tutte le acquisizioni passate in Italia, Austria ed Europa dell’Est.

Per chi fosse interessato ai dettagli ed all’evoluzione contabile, FT Alphaville ha tre utili articoli qui, qui e qui.

Il significato economico del goodwill

Un punto tuttavia molto più rilevante è capire il valore economico (e non semplicemente contabile) del goodwill. Supponiamo che esista un’azienda con un eccellente business, che chiameremo A. Tranne per il nome banale, questa azienda ha un solido brand ed una reputazione esemplare, ottimi rapporti sia con i clienti che con i fornitori, ed è sufficientemente grande ed efficiente perché i suoi concorrenti ritengano che sia molto difficile entrare nei mercati di riferimento di A per farle concorrenza. Adesso entra in gioco la conglomerata C, che decide di acquistare tutte le azioni di A: chiaramente C non potrà pagare semplicemente il valore di mercato degli assets di A, visto che questa è un così buon business. C è pertanto costretta a pagare un premio, e deve riportare il corrispondente ammontare di goodwill nel proprio bilancio.

L’azienda A, pur essendo adesso all’interno della conglomerata C, rimane gestita in modo autonomo dal vecchio management. Solo che ora ha un “fardello” di goodwill associato ad essa, e quindi sembra gravata di maggiori assets. Cosa succederebbe invece se A rifiutasse la proposta e decidesse di rimanere privata? Assolutamente niente, le aziende non devono riportare un qualche goodwill nel loro bilancio solo perché si ritiene che ne abbiano uno, ad esempio derivante dalla reputazione che si sono costruite nel corso degli anni. Quindi, che valore ha il goodwill nel caso di una acquisizione? Tutto quello che ci dice è la differenza tra il valore di mercato degli assets della società obiettivo e quello che l’acquirente è disposto a spendere per comprarli.

Questo è esattamente quello che ogni investitore fa (o dovrebbe fare): analizzare un’azienda per determinarne il valore intrinseco, che va oltre (in più o in meno) rispetto al valore netto delle attività dell’azienda stessa. Noi siamo la conglomerata, ed il nostro lavoro è decidere a quale premio (o sconto) rispetto al NAV dovrebbe trattare l’azienda.

Quindi, il valore contabile del goodwill è dannoso, o per lo meno una distrazione, nelle nostre decisioni di investimento? In realtà no. Non so cosa facciano altri analisti, ma il mio processo è molto semplice. Il primo passo consiste nel prendere tutti gli assets operativi dell’azienda: le immobilizzazioni materiali (inclusi i leasing operativi capitalizzati), il capitale circolante netto ed ogni altro elemento che ritengo essenziale e rilevante nella gestione dell’azienda. Il secondo passo è calcolare il rendimento di questi assets operativi, ad esempio sulla base dell’EBIT generato (che ricalcolo post-tasse, ma questo dipende dalle preferenze individuali). Questo è il rendimento che l’azienda è in grado di generare nella produzione e vendita dei suoi beni e servizi. 




Ecco, questo è il valore economico del goodwill, quello che permette ad un’azienda di poter avere rendimenti superiori al costo del capitale. Il lavoro dell’analista ovviamente non finisce qui: da dove viene questo vantaggio? È sostenibile? Sarà eroso in futuro ed i rendimenti scenderanno verso il costo del capitale? Queste sono le domande più difficili alle quale dare una risposta.

Come spesso accade, la miglior interpretazione ci viene fornita da Warren Buffett nel bilancio 2013 di Berkshire Hathaway:

I won’t explain all of the adjustments – some are tiny and arcane – but serious investors should understand the disparate nature of intangible assets: Some truly deplete over time while others in no way lose value. With software, for example, amortization charges are very real expenses. Charges against other intangibles such as the amortization of customer relationships, however, arise through purchase-accounting rules and are clearly not real costs. GAAP accounting draws no distinction between the two types of charges. Both, that is, are recorded as expenses when earnings are calculated – even though from an investor’s viewpoint they could not be more different.
Ed ancora, dalla lettera agli azionisti nel bilancio del 1983:
We believe managers and investors alike should view intangible assets from two perspectives:
1. In analysis of operating results – that is, in evaluating the underlying economics of a business unit – amortization charges should be ignored. What a business can be expected to earn on unleveraged net tangible assets, excluding any charges against earnings for amortization of goodwill, is the best guide to the economic attractiveness of the operation. It is also the best guide to the current value of the operation’s economic goodwill.
2. In evaluating the wisdom of business acquisitions, amortization charges should be ignored also. They should be deducted neither from earnings nor from the cost of the business. This means forever viewing purchased goodwill at its full cost, before any amortization. Furthermore, cost should be defined as including the full intrinsic business value – not just the recorded accounting value – of all consideration given, irrespective of market prices of the securities involved at the time of merger and irrespective of whether pooling treatment was allowed. For example, what we truly paid in the Blue Chip merger for 40% of the goodwill of See’s and the News was considerably more than the $51.7 million entered on our books. This disparity exists because the market value of the Berkshire shares given up in the merger was less than their intrinsic business value, which is the value that defines the true cost to us.
3. Operations that appear to be winners based upon perspective (1) may pale when viewed from perspective (2). A good business is not always a good purchase – although it’s a good place to look for one.
We will try to acquire businesses that have excellent operating economics measured by (1) and that provide reasonable returns measured by (2). Accounting consequences will be totally ignored.
Alcuni esempi
I settori nei quali il problema del goodwill e degli altri intangibles è particolarmente evidente sono quelli con un alto tasso di innovazione e di spese in ricerca e sviluppo (R&D): questo perché i costi di R&D sono spesati nel conto economico ogni anno (non sono capitalizzati), mentre l’acquisizione di know-how ed altri brevetti attraverso operazioni di M&A risultano tipicamente in elevati premi rispetto al NAV e quindi significativi goodwill.

I due grafici sottostanti riportano, rispettivamente, il ROIC ed il ROE per tre aziende farmaceutiche: Roche, Novo Nordisk e Sanofi.
 

 

Fonte: bilanci annuali delle tre aziende.

A prima vista, in termini di ROIC Novo Nordisk sembrerebbe decisamente la società migliore, più efficiente e redditizia delle altre due. Il realtà, la differenza è dovuta al diverso modo nel quale le aziende sono arrivate alla loro struttura attuale.

Novo Nordisk è cresciuta organicamente e non ha praticamente nessun goodwill in bilancio. Roche è cresciuta in parte attraverso acquisizioni, alcune piccole, altre più grandi (come quella di Genentech, vedi sotto): in bilancio ha CHF 7,6 miliardi di goodwill (pari al 12% dell’attivo ed al 36% dell’equity). Sanofi, invece, è il risultato di tre fusioni: nel 1999, Sanofi si è unita a Synthélabo, mentre Rhône-Poulenc ha acquisito Hoechst per formare Aventis; poi nel 2004 Sanofi-Synthélabo ha acquistato Aventis per portare all’attuale Sanofi (che nel 2008 ha anche acquistato Zentiva). Di conseguenza, Sanofi ha in bilancio goodwill per €37 miliardi, pari al 40% dell’attivo ed al 65% dell’equity. I diversi valori del ROIC si spiegano con i diversi livelli del numeratore (=capitale impiegato).

Un argomentazione simile vale per il ROE, perché molte acquisizioni sono pagate non con cash, bensì con carta (azioni dell’azienda acquirente), che risulta spesso in un aumento dei mezzi propri dell’azienda risultante dalla fusione. Ma come si spiega l’esplosione del ROE per Roche tra il 2008 ed il 2009, da 17% a 98%? Semplice, è di nuovo dovuto all’applicazione dei principi contabili. Fino al 2008 Roche possedeva il 60% di Genentech, e pertanto secondo i principi contabili la consolidava in pieno (utili, FCF, assets, liabilities, …) prevedendo una quota di minority interest per la quota che non possedeva. A marzo 2009 Roche ha proceduto ad acquistare il restante 40% di Genetech, pagando un significativo premio. Come riportato nel bilancio 2009:

The Group completed the purchase of the non-controlling interests in Genentech effective 26 March 2009, as described in Note 3. Based on the revised International Accounting Standard 27 ‘Consolidated and Separate Financial Statements’ (IAS 27), which was adopted by the Group in 2008, this transaction was accounted for in full as an equity transaction. As a consequence, the carrying amount of the consolidated equity of the Group was reduced by 52.2 billion Swiss francs, of which 8.5 billion Swiss francs was allocated to eliminate the book value of Genentech non-controlling interests. This accounting effect significantly impacts the Group’s net equity, but has no effect on the Group’s business or its dividend policy.
Il risultato contabile è stato l’eliminazione del minority interest ma anche e soprattutto la riduzione dell’equity da CHF 54 miliardi a CHF 9 miliardi. Niente è cambiato nel business di Roche, ma questa modifica contabile ha fatto esplodere il ROE.

Se, come discusso precedentemente, guardiamo invece al rendimento delle attività operative, il confronto tra le tre aziende è molto diverso:




Fonte: bilanci annuali delle tre aziende. 

Per essere precisi: esistono ancora delle differenze (in termini di prodotti, di mercati di riferimento, di efficienza gestionale, …) ed un buon analista dovrebbe guardare per prima cosa al business sottostante, ma queste differenze sono molto inferiori rispetto a quello che ROIC e ROE basati sui soli valori contabili farebbero pensare.

2 commenti:

  1. mi sono imbattuto per caso sulla svedese Mycronic. I fondamentali sembrano abbastanza buoni, il business interessante e con un mercato che ha possibili margini di crescita. Presenta nell'ultimo bilancio un enorme goodwill per acquisizioni strategiche. Tu la conosci? Che ne pensi?






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    1. mi dispiace, mai sentita.

      Un enorme goodwill (o anche tangible equity negativa) non è necessariamente un problema, dipende da dove viene. Se l’azienda ha fatto alcune acquisizioni strategiche e queste stanno “pagando”, vuol dire che sono bravi ad allocare il capitale. Al contrario, sarei più scettico (nel senso di approfondire meglio) se è cresciuta per dozzine di piccole acquisizioni, quella che si chiama un roll-up.

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