mercoledì 14 gennaio 2015

Petrolio: winners & losers

La recente debolezza (eufemismo) di molte materie prime – in particolare quelle energetiche ed alcuni metalli industriali – ha avuto un significativo impatto sulle azioni delle industrie che da queste dipendono.

Tutti coloro che affermano che prezzi più bassi saranno una manna per le economie occidentali (ed alcuni emergenti) che sono importatori di petrolio non hanno capito che questo non garantisce automaticamente un aumento della domanda e dei consumi. I margini di profitto potrebbero migliorare temporaneamente in alcuni settori (ad esempio quello manifatturiero), ma se questo porta nel medio periodo ad una guerra di prezzi su tutti i fronti, quello che finiamo per ottenere è una spirale deflativa che minaccia i salari e soprattutto il debito.

Detto questo, senza avere nessuna pretesa di sapere dove andrà il prezzo del petrolio nei prossimi mesi, vediamo quali potrebbero essere i vincitori ed i vinti in alcuni settori se la situazione attuale dovesse perdurare.

Oil & gas: la prima industria a risentire del crollo del prezzo del prezzo del petrolio è ovviamente quella estrattiva (Exploration&Production, E&P), con molte aziende costrette a ridurre le spese per capex – in alcuni casi in maniera drammatica - e, nel tempo, i target di produzione. Quelle che reggeranno meglio l’urto saranno le cosiddette “integrate” (cioè attive nell’intera catena produttiva, dall’estrazione alla raffinazione ed alla vendita dei prodotti finiti) e tra le E&P quelle con bilanci solidi (poco debito) e costi di produzione contenuti, che potranno permettersi di superare anche un prolungato periodo di volatilità nei prezzi.

Oil & gas services: di conseguenza, un impatto ancora maggiore sarà quello subito da tutte le aziende che dipendono in maniera quasi esclusiva dagli investimenti di E&P (Halliburton, Baker Hughes, Saipem, Vallourec, Tenaris, Technip, …).

Aerolinee & aerospaziale: il petrolio costituisce circa un terzo dei costi operativi delle linee aeree, che quindi beneficeranno dalle condizioni attuali, ed in maniera maggiore quelle che non hanno coperto interamente il rischio di prezzo. Il maggior impatto positivo in termini di utili dovrebbero averlo AirFrance-KLM e Lufthansa, molto meno Ryanair e EasyJet data la loro propensione a coprire quasi tutta l’esposizione al petrolio.

Nel settore aerospaziale, invece, un basso prezzo del petrolio permette alle aerolinee di utilizzare più a lungo i veicoli esistenti e dovrebbe portare ad una domanda più contenuta per nuovi aerei: con il petrolio stabilmente sotto i $60, la convenienza a rinviare gli acquisti aumenta in maniera esponenziale. A parziale bilanciamento, i bassi tassi d’interesse favoriscono invece l’acquisto in leasing di nuovi aerei, tipicamente più efficienti dal punto di vista dei consumi. Tra le aziende europee che potrebbero rimetterci vi è Airbus; dal lato dei vincitori ci saranno quelle che si occupano di ricambi e servizi after-sales, come Rolls-Royce, Safran e MTU.

Trasporti: il trasporto del petrolio in paesi come US e Canada è stato uno dei fattori che ha favorito la crescita dei fatturati e degli utili di molte ferrovie, e quindi il crollo del prezzo – dove si traduce in minore produzione – ridurrà anche le attività di trasporto. A risentirne potrebbero essere in particolare le aziende canadesi (Canadian Pacific Railway, Canadian National Railway) più esposte alle tar sands, meno quelle americane (CSX, Norfolk Southern).

Automobili: in Europa, dove le tasse pesano per il 75%-80% del prezzo al dettaglio della benzina, il legame tra prezzo del petrolio e domanda di automobili è molto tenue. In mercati come gli US dove l’incidenza delle tasse è inferiore, il calo del petrolio potrebbe invece spingere a maggiori acquisti, soprattutto di veicoli più grandi e nelle categorie superiori. Altro impatto è dovuto alla riduzione del costo unitario di tutte le componenti in plastica all’interno dei veicoli. Tra i vincitori ci saranno tutti i produttori con esposizione al mercato US, tra i quali FCA (Fiat), GM e Ford, e le aziende tedesche “premium” (Mercedes, BMW ed Audi, posseduta da Volkswagen).

Chimici: i prezzi di quasi tutti i materiali di base sono strettamente correlati al petrolio, e le quotazioni di molte aziende sono scese assieme al settore energetico negli ultimi mesi. A livello europeo, la situazione attuale potrebbe essere negativa per quelle aziende (BASF, Lanxess, Novozymes, Linde e Air Liquide, ad esempio) che subiranno l’effetto negativo sul pricing dei loro prodotti. Una seconda conseguenza è che gli acquirenti riducono gli ordini e preferiscono utilizzare le scorte esistenti con l’idea di approfittare di prezzi ancora più bassi in futuro. Gli unici che potrebbero trarne beneficio sono le aziende che producono vernici e collanti, dove i prezzi sono più stabili ed una significativa parte dei loro costi è legata al petrolio (ad esempio Akzo Nobel). Se il crollo del petrolio si trasferisse anche alle commodities agricole, questo sarà negativo anche per K+S, Yara e Syngenta.

Utilities: il prezzo del petrolio non è più il fattore chiave nel mercato dell’elettricità, lo sono piuttosto il carbone ed il gas, che non hanno al momento sperimentato lo stesso crollo (i prezzi sono diminuiti ma in maniera inferiore). Non di meno, la situazione attuale di bassi prezzi e bassi tassi d’interesse dovrebbe essere comunque positiva per utilities come Red Electrica ed Iberdrola, mentre potrebbero fare meno bene quelle che hanno una qualche esposizione all’estrazione (upstream) del gas come Centrica, GDF e E.On.

Capital goods: storicamente, queste aziende fanno meglio in periodi di prezzi delle commodities in aumento, in quanto il pricing power sul lato della domanda è più che sufficiente a compensare per l’aumento dei costi di produzione, facendo quindi aumentare i margini. Al contrario, prezzi delle materie prime in diminuzione portano ad una contrazione della domanda e dei margini. Nella situazione di deflazione attuale, le aziende che faranno meglio sono quelle con pricing power (Assa Abloy, Legrand), che non hanno alcuna esposizione ad Oil & Gas. Al contrario, a risentirne saranno proprio quelle aziende con questa esposizione, come Sulzer, Weir, Smiths e, in maniera inferiore, Atlas Copco, ABB e Siemens

Minerari: a livello generale l’impatto del prezzo del petrolio è neutrale: l’oro nero è uno dei principali costi per l’industria estrattiva e dovrebbe quindi esserci una riduzione dei costi, beneficio che però potrebbe essere annullato perché la minor domanda di petrolio a livello mondiale coincide in genere con minor crescita economica e quindi pressioni ribassiste sui prezzi dei metalli industriali. Tra le aziende più grandi, BHP potrebbe essere un perdente (relativo) per la sua esposizione diretta all’estrazione del greggio, mentre Rio Tinto potrebbe essere un vincitore (sempre relativo).

Retailers: prezzi in calo per le materie prime sono tipicamente positivi per le famiglie, perché diminuiscono i costi per trasporto e, nel tempo, le fatture per elettricità e gas. A beneficiarne tra i retailer dovrebbero essere quelli focalizzati sulle fasce più a basso reddito della popolazione (dove la diminuzione delle spese sopra menzionate è proporzionalmente maggiore), anche se a livello internazionale la situazione è complicata dai movimenti relativi delle valute: ad esempio, Inditex dovrebbe beneficiare dal deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro (mentre H&M ci perde), ma Inditex ha anche una significativa esposizione alla Russia.

Beverages, food & household products: la diminuzione nel prezzo del petrolio riduce i costi di produzione dei principali beni di consumo, sia per quello che riguarda i contenitori (vetro e plastica) che il loro trasporto. A beneficiarne potrebbero essere sopratutto Anheuser-Busch InBev, Diageo, Pernod, Heineken, Reckitt Benckiser e Unilever, che hanno molta esposizione a US ed Europa. Tra i perdenti principalmente Carlsberg, che ottiene il 30% dei propri profitti in Russia.

Farmaceutici: storicamente, la diminuzione del prezzo del petrolio è stata positiva per i titoli farmaceutici, ma non per una questione di fondamentali quanto di rotazione degli investimenti, in quanto i gestori tendono a vendere i titoli energetici e comprare quelli più difensivi (quindi farmaceutici ma anche beverages&food e prodotti per la casa).

Tecnologia: probabilmente il settore meno impattato dai prezzi delle materie prime, se non per gli effetti collaterali della variazione della crescita economica (positiva o negativa).

Infine, le banche: il prezzo del petrolio non è una reale variabile nel loro conto economico, lo sono piuttosto l’impatto sul PIL, la domanda di credito e la curva dei tassi. Con l’eccezione di quei paesi (Canada, Norvegia, Australia) dove il sistema bancario domestico è molto esposto alle fluttuazioni delle commodities, le banche non dovrebbe risentire in maniera significativa di quanto accaduto negli ultimi mesi, anche se molto dipende dal mix del loro fatturato. 

Prezzi delle commodities più bassi significano minor richiesta da parte delle aziende di soluzioni di copertura, che riduce i ricavi da trading. Per i prestiti, in alcuni segmenti quelli legati ad energia e minerari – soprattutto in Nord America - sono cresciuti moltissimo negli ultimi anni, che potrebbero diventare un fardello se l’attività in questi settori continuasse a contrarsi. Per quello che riguarda l’advisory, tra le banche più grandi quelle con maggiori ricavi dal settore energetico sembrano essere Citigroup, Wells Fargo e Barclays, mentre JP Morgan, Goldman Sachs, Credit Suisse, Deutsche Bank e Bank of America hanno una minore esposizione percentuale in questo segmento.

Nell’analisi degli scenari macroeconomici, negli ultimi tre mesi si è passati da: “Il petrolio sotto $90 sarà uno stimolo per l’economia” (e quindi le banche), a: “Il petrolio a $50 cambierà tutto”, per finire con: “Aiuto! I default nel settore energetico saranno i nuovi sub-prime!”


Quello che dovrebbe maggiormente preoccupare non sono i (possibili se non molto probabili) default di prestiti ed obbligazioni, ma come sempre quello che non si vede nei bilanci delle banche (dark debt). Si tratta di tutto quel debito che non è ancora stato riflesso nei prezzi di mercato dei vari assets, come ad esempio i finanziamenti off-balance sheet o strutturati delle banche che sono collegati in qualche modo ai prezzi delle commodities. Alle posizioni unhedged ed al debito verso produttori/estrattori va infine aggiunta l’esposizione (diretta o indiretta) alle nazioni produttrici di petrolio, soprattutto nei mercati emergenti, perché quello che succede è una redistribuzione del reddito dagli esportatori netti agli importatori netti.

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