mercoledì 27 maggio 2015

MPS: altro giro, altra corsa

Dopo la ricapitalizzazione da €5 miliardi dello scorso anno, Banca Monte dei Paschi è di nuovo sul mercato con una ulteriore richiesta per €3 miliardi (ed a breve lo stesso accadrà per Banca Carige). Nessuna delle due banche rientra nel mio radar screen, ma è sempre interessante analizzare come sono strutturate e prezzate queste operazioni.

L’aumento di capitale di MPS, deliberato giovedì scorso, ha le seguenti caratteristiche:
  • Prezzo di emissione delle nuove azioni: €1,17, all’apparenza uno sconto di 88% rispetto al prezzo di chiusura di €9,675 il giorno precedente l’annuncio;
  • Nuove azioni offerte in un rapporto di 10 per ogni azione precedentemente posseduta;
  • I diritti sono esercitabili tra il 25 maggio ed il 12 giugno (ma trattabili sul mercato solo fino a 8 giugno), dopo tale data scadranno senza alcun valore;
  • Come pagamento degli interessi accumulati nel 2014 sui Monti-bond, il Tesoro riceverà circa il 4% del capitale della banca post-aumento.
Da queste informazioni si può ricavare il cosiddetto TERP (“Theoretical Ex-Rigths Price”), ovvero il prezzo teorico al quale dovrebbero trattare le azioni una volta completato l’aumento di capitale, che è semplicemente la media ponderata dei valori assumendo che tutti i diritti vengano esercitati.

Utilizzando il prezzo di chiusura precedente all’annuncio si ha (il numero di azioni è espresso in milioni):

dal quale si evince le nuove azioni sono offerte ad uno sconto di quasi 40% rispetto al TERP (è questo lo sconto da monitorare, non 88% indicato precedentemente).

Dopo il recente raggruppamento 1:20 (reverse split) delle azioni, il prezzo di MPS è sceso rapidamente prima dell’annuncio definitivo da €12 fino €9 [NB: chi controllasse oggi il prezzo di MPS, ad esempio su Bloomberg, troverebbe valori diversi in quanto da lunedì il titolo tratta cum-rights]


Il problema principale, esattamente come lo scorso anno, è che MPS è “costretta” ad un’operazione da €3 miliardi rispetto ad una capitalizzazione di soli €2,5 miliardi: per invogliare gli acquirenti è stato pertanto necessario offrire uno sconto persino superiore rispetto allo scorso anno. L’intenzione è chiara: lo sconto fa aumentare il valore dei diritti, che dovrebbe spingere al loro esercizio piuttosto che a lasciarli scadere inoptati. Quello che succede tipicamente in queste situazioni è:
  • Prima dell’annuncio definitivo, i “vecchi” investitori cominciano a vendere parte delle loro azioni per raggranellare la liquidità necessaria per sottoscrivere quelle azioni (dall’andamento del prezzo nelle ultime settimane sembra che sia successo effettivamente questo);
  • Durante il periodo di esercizio dei diritti, c’è una qualche pressione ribassista sul loro prezzo perché alcuni investitori cercheranno di vendere abbastanza diritti per finanziare l’esercizio di quelli rimanenti. Questo in genere risulta in uno sconto del prezzo dei diritti rispetto al loro valore teorico.
Dopo che lunedì 25 né l’azione né i diritti (che sono trattati indipendentemente) sono riusciti a fare mercato, martedì 26 sono invece crollati entrambi. Al prezzo dell’azione al momento di scrivere (€1,82), il valore teorico dei diritti è dato da: 

rispetto ad un prezzo corrente di €5,53: lo sconto non è enorme (15%), ma sembrerebbe che ci sia la possibilità di un arbitraggio.

Ma - perché purtroppo c’è un ma – occorre vagliare anche le seguenti considerazioni:

  • Il fatto che i diritti trattino a sconto rispetto al prezzo teorico non è affatto inusuale, in quanto non sempre è possibile effettuare l’operazione di puro arbitraggio (vendere allo scoperto l’azione e comprare i diritti): questo è proprio quello che successe lo scorso anno ad MPS, quando era praticamente impossibile andare short sull’azione, cosa ancor più difficile per gli investitori retail.
  • Il valore dei diritti è una funzione non solo dal prezzo delle azioni (controllare l’apertura di lunedì), ma anche e soprattutto dal loro volume di negoziazione: nei primi giorni di trattazione dello scorso anno i diritti ebbero un volume giornaliero doppio delle azioni. Questo portò ad un enorme disallineamento dei prezzi dei diritti rispetto al valore teorico, che però fu poi ridotto nei giorni successivi.
  • In particolare per gli investitori retail, molti intermediari richiedono una conferma sull’esercizio dei diritti ben prima della scadenza ufficiale (almeno una settima): questo vuol dire che non tutti possono aspettare l’ultimo giorno per decidere cosa fare.

5 commenti:

  1. Buongiorno,
    Credo che l'investimento in banche tradizionali (quelle con principale fonte di business il margine di interesse) abbia ormai poco a che fare con il value investing; di fatto, nonostante Basilea, la discrezionalità nel trattare certi impieghi (di fatto sofferenze),... è a noi ignota. Persino il derivato Santorini (vera bomba atomica) non era evidente a bilancio.
    Credo che il mare in burrasca per le nostre banche continuerà ancora a lungo (in particolar modo mi aspetto che venga scoperchiato il vaso di pandora delle banche medie e piccole); le banche giapponesi di fatto si trovano impantanate da lustri, non credo che le nostre se la caveranno tanto meglio!
    Claudio L.

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    1. Opinioni in gran parte condivisibili, anche se il focus in questo caso era una “special situation” (i diritti MPS), non certo un investimento di lungo termine in una di queste istituzioni.

      Su banche e value investing non sono però d’accordo: investitori molto più bravi di me concordano nell’evitare le banche in generale; io invece ritengo che al giusto prezzo (e la banca giusta!) possano essere degli investimenti con un margine di sicurezza. Non comprerei mai Citigroup, DB o Barclays, per fare tre esempi, perché sono delle “black box”: ma banche commerciali in paesi solidi rimangono interessanti.

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  2. Mi inserisco nella discussione per una riflessione. Le banche italiane sotto monitoraggio bce ad esito della aqr e dei recenti Aucap sono tra le meglio capitalizzate in Europa e con buoni rapporti di copertura delle sofferenze. Hanno un business tradizionale ma questo non è un peccato. Hanno molta meno leva delle altre banche europee in genere. Sono come tutti gli istituti di credito dipendenti dalle condizioni del sistema paese. Trattano a multipli decenti e da quest'anno quasi tutte in utile. Che siano oggetto di un investimento value, come sempre, dipende solo dal prezzo. A voi / noi valutare, anche caso per caso, le situazioni più convenienti. Non è detto che anche MPS ai prezzi di oggi non possa essere un ottimo affare. Rispetto alle banche giapponesi, non hanno presenza rilevante nell'equity delle aziende, a parte talune situazioni, che sono pero ben note e monitorabili.Saluti

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    1. Quello che dice è corretto, ma è difficile aprire una discussione in una risposta.

      In sintesi, le banche italiane sono in genere ben patrimonializzate (leva inferiore) e hanno elevati rapporti di copertura di NPLs (che però alla fine non serve a molto: NPL netti sono di gran lunga superiori al tangible book value!). Il vero problema delle banche italiane è un altro: non sono sufficientemente redditizie, perché hanno un ROA (anche prima degli accantonamenti per perdite) molto inferiore alle migliori banche europee. Quando va bene, le banche italiane hanno un ROA di 40bp: se ci applichiamo una leva di 15x otteniamo un ROE di 6%, ben più basso del cost of equity.

      Queste non sono aziende che creano valore nel lungo periodo, i famosi compounders.

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  3. Si certo non si può aprire una discussione con un commento. Mi premeva sottolineare che al di là della redditività che peraltro a mio avviso va anche rivista in un'ottica di costo del rischio normalizzato (perché se questa rimane la situazione del paese sottostante stiamo parlando del nulla e falliscono tutte), a certi prezzi nel 2012 erano un affare e qualcuna lo è anche adesso, pur ponendosi come investitore in un'ottica liquidatoria. Magari ne possiamo parlare volentieri su un post dedicato. Cordialmente

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