giovedì 12 novembre 2015

Asset managers: the Italian job?


Una tabella riassuntiva delle valutazioni attuali e della performance dei principali asset manager quotati. 

In termini di performance, da inizio anno i risultati mostrano una elevata dispersione (si va da -48% per Och-Ziff, un hedge fund, a +106% per Anima), ma con una prevalenza di rendimenti negativi: tra le società in positivo spiccano i gestori italiani. Questo andamento bipolare può essere in gran parte spiegato dalle montagne russe dei mercati finanziari nel 2015, e con il fatto che molti investitori istituzionali hanno ritirato significative somme (in primo luogo sovereing wealth funds in Asia e Medio Oriente, per far fronte a vari problemi interni, incluso il calo delle commodities). Riducendo l’analisi ai rendimenti a partire da questa estate (il 17 agosto giorno è stato preso come riferimento perché quel giorno l’indice S&P 500 è “crollato” sui rumours di problemi in Cina), le performance negative sono ancora superiori come quantità, anche se molte hanno recuperato gran parte - se non tutto - il calo accusato da allora.


Fatturato ed utili si riferiscono agli ultimi 12 mesi. Amundi ha appena concluso l’IPO al prezzo di €45 ma non ha ancora cominciato ad essere trattata.

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Per quello che riguarda le valutazioni, diversamente da altri titoli finanziari come banche ed assicurazioni, P/BV non è un buon indicatore, date le enormi differenze in termini di struttura patrimoniale; per le stesse ragioni, ROE è importante ma in parte distorto (tutti gli asset manager hanno comunque poco debito ed ampia liquidità disponibile). Il P/E riflette le differenze in termini di redditività e prospettive future, ma è complicato dal fatto che molte società, soprattutto quelle americane, hanno differenti classi di azioni e/o units, oltre a strutture che premiano gli azionisti di controllo (alcuni esempi: Och-Ziff, AllianceBernstein): molti database non riportano infatti il P/E corretto, facendolo spesso sembrare più basso di quello che in realtà è.

Pur con un’ampia dispersione, la miglior metrica rimane a mio avviso Mkt cap/AuM (qui la spiegazione), con qualche aggiustamento per prendere in considerazione la redditività, le fees medie dalle masse gestite, le prospettive di sviluppo, la qualità del management, etc…. Ad esempio, quando nel 2009 BlackRock acquistò iShares da Barclays, pagò “soltanto” 0,98% degli AuM (gli ETF sono un business con commissioni molto basse): considerando le altre divisioni che oggi formano la società, un multiplo corrente di 1,21% per BlackRock sembra giustificato.

The REAL Italian job
Particolarmente interessante è la valutazione dei gestori italiani: mentre in termini di P/E sono attorno alla media del settore, sono di gran lunga i più costosi in termini di mkt cap/AuM, con l’eccezione di Anima. (Nota: Banca Generali, Mediolanum e Fineco non sono puri asset managers, hanno anche attività bancaria/assicurativa, quindi le loro valutazioni sono in parte distorte).

Uno dei motivi per i quali le SGR italiane sono così “apprezzate” dagli investitori è l’elevatissimo livello di fees (in bp) che riescono ad estrarre dalle loro gestioni, in primo luogo perché orientate più di altri player internazionali verso la clientela retail, dove i guadagni sono superiori. Non solo: già dal 2005 Banca d’Italia ha introdotto regole che impongono il calcolo delle performance fees su base annuale per tutti i fondi domiciliati in Italia (l’ultima versione del provvedimento è disponibile qui). Ma AZM, BG e MED operano principalmente attraverso le loro controllate in Lussemburgo o Irlanda (i cosiddetti fondi roundtrip o esterovestiti), dove queste regole non valgono.

Sui fondi gestiti in Lussemburgo e Irlanda (ma autorizzati e distribuiti in Italia), le SGR italiane al momento applicano spesso performance fees mensili, senza la regola di high-water mark e (in alcuni casi) senza nemmeno un benchmark o rendimento predefinito. Questo porta ovviamente a commissioni superiori per le SGR, rispetto ad esempio alle banche italiane (tutti i dati seguenti sono presi da un report di Deutsche Bank: “Challenging the performance fees”, 16 luglio 2015).

Considerando il periodo 2009 – Q1 2015, Mediolanum ha incamerato le più alte commissioni di incentivo (in media, 79 bp), seguita da Azimut (media: 66 bp) ed infine da Banca Generali (media: 36 bp).

Sui fondi domiciliati in Irlanda (80% del totale), Mediolanum fa un semplice raffronto tra il NAV del fondo alla fine del mese con quello del mese precedente; se positiva, su questa differenza viene calcola la commissione di incentivo. Sui fondi domiciliati in Italia, invece, applica una performance fee sulla variazione annuale del NAV. Azimut, invece, calcola la differenza tra il NAV del mese appena concluso ed il NAV tre mesi prima, e se positiva applica le commissioni di incentivo. Banca Generali utilizza la stessa metodologia di Azimut su gran parte dei suoi fondi.

Per le banche italiane, invece, queste performance fees sono decisamente inferiori: sullo stesso periodo di analisi, sono state in media di 10 bp per Intesa, 17 bp per UBI e Banco Popolare, e 20 bp per Credem. Non solo: sono anche più “volatili”, poiché sono registrate soltanto alla fine dell’anno (anche se in alcuni casi sono possibili su periodi infra-annuali). Infine, come si vede dal grafico, per le banche le performance fees posso essere pari a zero negli anni negativi (come il 2011), mentre con le metodologie di calcolo utilizzato questo è meno probabile per le SGR: la volatilità mensile può portare a commissioni di incentivo positive anche in anni negativi.

Poiché questa discrepanza sta diventando sempre più visibile, potrebbe esserci una “spinta regolamentare” per sanarla? Per il momento non si sa, ma non è da escludere una qualche armonizzazione in futuro. Consob ha recentemente commentato su questo punto: anche se non ne ha messo in discussione il calcolo (sulle quali non ha autorità), ha comunque portato l’argomento sotto i riflettori. In particolare, Consob ha ammonito riguardo: 1) la parzialità degli incentivi che i promotori hanno nel piazzare i prodotti con maggiori performance fees; 2) la trasparenza dei prezzi. Anche la European Securities and Markets Authority (ESMA) potrebbe interessarsi maggiormente ad una armonizzazione delle regole a livello europeo.

Per chi investe negli asset managers italiani, la domanda diviene: è possibile che ci sia una “erosione” di questo vantaggio? A guardare gli ultimi 10 anni, la risposta sembrerebbe un altisonante no. Non è chiaro esattamente da dove, ma ci sono tre possibili fronti:

  1. Regulators: la spinta potrebbe essere verso l’uniformità delle commissioni su tutti i prodotti distribuiti in Italia, non soltanto su quelli qui gestiti. Oppure una maggiore armonizzazione a livello europeo. 
  2. Concorrenti: SGR come Anima e Fineco (a maggior ragione dopo la loro quotazione in Borsa) ed altre sono diventate molto più attive nel far notare questa discrepanza. E lo stesso vale per le banche.
  3. Clienti: infine, è auspicabile che questa spinta provenga anche dai clienti stessi, che diventano più sofisticati ed educati finanziariamente. Finché i fondi generano buoni ritorni, questa spinta rimarrà moderata; ma se ci dovessero essere periodi di sottoperformance o di crisi, le richieste dei clienti potrebbero diventare più pressanti. 
Nel business delle gestioni patrimoniali non esiste una vera e propria concorrenza, men che meno sui prezzi applicati: decisamente un vero Italian job (tutto a discapito dei risparmiatori, ovviamente).

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