mercoledì 22 marzo 2017

Macro post: USD

Una delle priorità di Trump è di riportare negli US i posti di lavoro persi negli ultimi anni a causa della globalizzazione (“Make America Great Again”). Le soluzioni proposte sono:
  1. tagli alle tasse
  2. deregulation
  3. investimenti in infrastrutture
La somma di queste politiche dovrebbe portare al rilancio degli animal spirits delle imprese e dei lavoratori americani. Il consensus di breve di carattere economico può pertanto essere riassunto con:
  • Accelerazione nella crescita del PIL americano
  • Accelerazione dell’inflazione
  • Politiche monetarie più restrittive (= Fed continuerà ad alzare i tassi)
  • Mercati azionari ancora rialzisti, accompagnati da bassa volatilità
  • Buy: banche, industriali, ciclici
  • Sell: retailer, utilities, consumer staples, obbligazioni
La conseguenza più diretta: dollaro forte.
C’è però un problema non secondario: come si finanziano queste politiche considerando che il debito americano è in continuo e rapido aumento dal 2008 e oggi ha ormai superato la soglia psicologica di 100% rispetto al PIL? Senza contare che le tre soluzioni sopra elencate sono come voler curare un braccio rotto con un cerotto.

Rimane un’altra strada: quella di tariffe doganali, la famosa Border Adjustement Tax. Nonostante sia stata ampiamente discussa nelle ultime settimane, questa tassa:
  • È estremamente complicata da mettere in pratica
  • È contraria alle regole del WTO e farebbe precipitare una guerra commerciale
  • Distruggerebbe la redditività dei retailer americani (circa 16 milioni di posti di lavoro), che già non se la passano bene
  • Farebbe aumentare molti dei prezzi al consumo all’interno degli US (WalMart primo su tutti)
  • Rafforzerebbe ulteriormente il dollaro
L’ultimo punto è quello al quale volevo arrivare, perché è esattamente questo il principale dilemma per gli US. Il grafico sottostante mostra l’andamento di USD rispetto ad un indice composto dalle principali valute mondiali (EUR, CAD, JPY, GBP, CHF, AUD e SEK), ciascuna pesata per l’ammontare di interscambi commerciali con gli Stati Uniti (trade weighted): con alti e bassi, ma sostanzialmente agli stessi livelli negli ultimi 25 anni.

Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis.

Quest’altro grafico mostra sempre l’andamento del dollaro, ma questa volta rispetto ad un paniere più ampio di valute: oltre a quelle precedenti, sono include anche le valute di Messico, Cina, Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong, Malesia, Brasile, Thailandia, Filippine, Indonesia, India, Israele, Arabia Saudita, Russia, Argentina, Venezuela, Cile e Colombia. La situazione è completamente differente: rispetto a queste valute, il dollaro si è (quasi) sempre apprezzato, praticamente raddoppiando dalla fine degli anni 1980.


Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis.

Quello che emerge è chiaro: USD è troppo forte rispetto alle valute dei paesi emergenti, come si può vedere anche dal famoso Big Mac Index dell’Economist. 

Fonte: The Economist. 

Le deboli e deprezzanti valute dei paesi emergenti hanno messo sotto pressione il lavoro in quelli sviluppati: un dollaro forte fa aumentare i margini di profitto delle aziende americane (in costante anche se volatile crescita dagli anni 1990 in termini di PIL), ma fa contemporaneamente diminuire la quota di pertinenza dei lavoratori (già in discesa ma crollata nel nuovo millennio).
Fonte: GMO.
La conclusione è ovvia: per riportare il lavoro in US il dollaro si deve deprezzare rispetto alle valute emergenti, portando i seguenti benefici:

  • Renderebbe la globalizzazione (un po’ più) equa e sostenibile
  • Eviterebbe guerre commerciali e barriere alla circolazione delle merci
  • Farebbe aumentare il potere d’acquisto e migliorare le condizioni economiche della middle class, soprattutto in US ma in parte anche in Europa
Come si fa quindi ad indebolire il dollaro? Ci sono due strade.

La prima è quella di un nuovo accordo come quello del Plaza del 1985, sottoscritto dai governi e dalle banche centrali dei paesi più importanti (questa volta dovrebbe includere almeno anche i BRIC). Riprendendo il grafico precedente si vede che il primo ribilanciamento di USD avvenne proprio in seguito a tali decisioni.

Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis.
La seconda strada è molto più “interessante”: si elegge un presidente “volatile” che poi si comporta in maniera “volatile”. In pratica un presidente che: minaccia di rinegoziare gli accordi commerciali con tutti i principali partner, se non di cominciare guerre vere e proprie; minaccia di rinegoziare il debito americano; attacca il sistema giudiziario e le leggi del proprio paese; bandisce la circolazione delle persone; annuncia spese massicce con il debito già a livelli record; riscrive la costituzione della Federal Reserve; manda tweet tutti i giorni spaziando dall’ISIS a Meryl Streep.

In pratica, l’obiettivo è di spingere il mondo a farsi domande sulla leadership americana e sulla sicurezza degli investimenti in US, facendo scemare il ruolo di reserve currency della sua valuta. Gran parte della ricchezza mondiale, ed a maggior ragione quella proveniente dai paesi emergenti (fondi sovrani ma non solo), è stata parcheggiata in assets US per la certezza di vedersela restituire in una moneta forte e stabile più che sulla base dei rendimenti effettivi che si possono ottenere.

Se il principale obiettivo della nuova amministrazione americana è riportare in patria i posti di lavoro, è più probabile un dollaro debole nei prossimi anni, non forte. Questa situazione è difficilmente sostenibile e conciliabile.  

Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis.

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