lunedì 25 settembre 2017

“Battle of the brands” (parte II): supermercati

Come visto nel post precedente, il valore del brand deriva dal ridurre i costi di ricerca per i consumatori. Un modello che è divenuto sempre più forte negli ultimi 20 anni è quello nel quale è il distributore, e non il produttore, ad assumere questo ruolo.

Questo è ben dimostrato dal successo di Costco negli US: la sua strategia è di trovare prodotti di qualità a prezzi contenuti, passare i risparmi ai clienti e creare un circolo virtuoso dove dimensioni maggiori portano a risparmi maggiori. In questo modo Costco è riuscita ad avere eccellenti rendimenti anche se vende praticamente a prezzo di costo: poiché i consumatori pagano per il “privilegio” di acquistare nei suoi supermercati (occorre essere membri ad un costo che va da $25 a $120 l’anno), questo può essere visto come l’azienda che si fa pagare direttamente per ridurre i costi di ricerca. La stessa strategia (dimensioni = risparmi più membership con Prime) è stata adottata da Amazon.

La tabella sottostante mostra come una delle caratteristiche principali dei supermercati è di avere margini di profitto molto bassi e guadagnare dall’elevato turnover della merce (inventory turnover è dato dal fatturato sulla media delle scorte durante l’anno).

Lo spazio disponibile sugli scaffali non è infatti infinito e tradizionalmente è stato presidiato dai prodotti di marca, permettendo alle aziende produttrici di estrarre gli extra-profitti (vedi post precedente), mentre per le catene di supermercati è molto difficile applicare un mark-up sufficiente su questi beni per aumentare i propri margini.

Whole Foods, recentemente acquisita da Amazon, ha i margini migliori non solo perché vende prodotti naturali ed organici di alta fascia, ma soprattutto perché è la più presente con le proprie private label, operando con ben 365 marchi sotto Organic Everyday Value e Allegro Coffee. [Nel caso di Wal-Mart i margini più elevati dipendono dal fatto che vende più degli altri prodotti come elettronica e vestiti: l’altro lato della medaglia è un turnover inferiore rispetto a chi vende principalmente prodotti deperibili come Whole Foods.] Aldi e Lidl sono due aziende private e non ci sono informazioni precise sui loro margini, ma c’è un motivo se entrambe hanno solo marchi propri o una ridottissima gamma di prodotti di marca: con le proprie etichette un supermercato può migliorare sensibilmente i margini di profitto.

Questo trend non è nuovo, ed è stato seguito da molti: la stessa Wal-Mart ha detto che incrementare i propri private labels è la priorità per affrontare le sfide poste dai deep discouters. Quello che è da vedere è come deciderà di procedere: oggi Wal-Mart ha circa 90.000 SKUs (Stock Keeping Units, il numero di articoli gestiti in magazzino), più del doppio di un supermercato tradizionale (che ha 25.000 – 45.000 SKU) e ben superiore a quello che hanno Aldi e Lidl (∼1.300 SKU, che salgono a 2.500 se si includono le promozioni).

I prodotti a marchio non scompariranno, soprattutto per la capacità delle multinazionali di re-investire nel proprio business: questi rimarranno stabili e con consistenti flussi di cassa, ma non attendiamoci chissà quale crescita in termini di fatturato ed utili (ancora peggio potrebbe andare per le aziende di seconda fascia). La crescita degli utili/FCF per azione dovrebbe essere una conseguenza più dei buyback che dell’andamento del business sottostante, soprattutto come conseguenza delle “razionalizzazioni” dei brand con la vendita di assets considerati non-core, come dimostrano - tra le altre - P&G, Nestlè ed Unilever.

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